Gilda Tentorio intervista Gemma Hansson Carbone, PAC, 28 aprile 2023
“Muoio come un paese” di Dimitris Dimitriadis: la vertigine della Storia e le sue orme culturali.
Gilda Tentorio intervista Gemma Hansson Carbone, “PAC – Pane Acqua Culture”, 28 aprile 2023
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Sguardo lucido e consapevole, un’energia vivida che guarda a progettualità di ampio respiro: Gemma Hansson Carbone ti travolge con il suo entusiasmo. La sua è un’identità cosmopolita favorita dalle origini italo-svedesi, con un’apertura a quel meticciato fluido che è la cifra per interpretare le contraddizioni del mondo contemporaneo. Lavora presso il Teatro Nazionale di Göteborg, ma si definisce una «freelance in giro per l’Europa e per il mondo»: si ritaglia infatti spazi creativi come attrice o regista in progetti che appaghino la sua inquietudine nomadica.
Ho seguito i suoi lavori, soprattutto quando l’hanno portata in Grecia a collaborare con i maggiori registi contemporanei (Terzopoulos, Marmarinòs, Elli Papakonstantinou), e nelle sue sperimentazioni di linguaggi artistici sempre nuovi trovo un filo rosso: il tema della memoria, in una prospettiva di responsabilità e di interrogazione sul sé.
Ora la giovane artista si cimenta con un testo capitale della drammaturgia greca moderna, Muoio come un paese, di Dimitris Dimitriadis (1944-), che debutterà a Ravenna (qui il teaser) il prossimo 2 maggio nell’ambito della sesta edizione di POLIS Teatro Festival.
Il testo fu pubblicato nel lontano 1978, dopo gli anni bui della dittatura dei colonnelli, quando la Grecia viveva il sogno della prosperità e l’euforia del “tutto è possibile”. Un fulmine a ciel sereno. Si tratta di una straordinaria allegoria: un’intera civiltà è al collasso, non nascono più figli, tutto si sgretola, le maglie dell’ordine e del vivere civile si allentano in un gioco al massacro e alla follia, mentre si susseguono annunci allarmanti sull’arrivo di un popolo nemico. A suo tempo, il testo, così radicale e controcorrente, non fu compreso, ma con gli anni è diventato uno dei must del repertorio greco.
Come sei approdata a questo testo che è uno dei vertici della letteratura greca contemporanea?
Me lo ha fatto conoscere alcuni anni fa Aglaia Pappà, un’attrice che lo ha sperimentato in scena e lo ha portato anche in Francia. Per me è stata una folgorazione. Il testo non è teatrale, ma una “poesia in prosa”, una metafora fantascientifica e allo stesso tempo arcaica di una società che ha perso se stessa e che è morta in se stessa. Esiste una traduzione italiana, a cura di Barbara Nativi e Dimitri Milopoulos, che lo avevano presentato nel 2002 al Festival Intercity al Teatro della Limonaia. Ma ho letto anche l’originale greco e la traduzione francese: insomma, è diventato per me un’ossessione. Ho capito subito che era un testo irrinunciabile ma dovevo trovare la prospettiva giusta. All’inizio progettavo di portarlo in Svezia e di curarne soltanto la regia, ma poi per una serie di problemi, coincidenze o scherzi del destino, grazie al supporto dello stesso Dimitriadis, uomo di grande generosità e ispirazione, e anche di Terzopoulos, ho capito che il testo mi chiamava in un senso totale. E così il progetto ha cominciato a muovere i primi passi, con il mio ruolo di regista e unica performer, e ha acquisito le mie dimensioni “nomadiche”.
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