POLIS Teatro Festival 24 – parte 1 – Mats Staub e ErosAntEros
Olindo Rampin, “PAC”, 17 maggio 2024
https://www.paneacquaculture.net/2024/05/17/polis-teatro-festival-24-parte-1-mats-staub-e-eros-anteros/

“C’è un’ispirazione neo-umanistica, un sentore di rinnovati echi spiritualistici di derivazione esistenzialista in Death and Birth in My Life, la video-installazione realizzata dall’artista bernese ma residente a Berlino Mats Staub e presentata a POLIS, il festival ravennate diretto da Davide Sacco e Agata Tomšič/ErosAntEros. Focus di quest’anno: la scena contemporanea tedesca.

Promotore di una poetica della realtà incompatibile con il teatro come rappresentazione, Staub ha allestito una raccolta di video-racconti di dialoghi autobiografici tra persone reali, realizzati in Paesi diversi, dal Sudafrica all’Irlanda, intorno all‘Alfa e all’Omega della vita umana. Nel suo percorso formativo Staub ha all’attivo anche studi religiosi, che forse hanno contribuito a nutrire l’aura spiritualeggiante che avvertiamo nel suo lavoro.

All’ingresso in sala viene proposta la scelta di uno degli otto video fruibili. L’atmosfera è intima e vi contribuisce lo “spirito del luogo”, le Artificerie Almagià, un ex opificio dove si stoccava lo zolfo che somiglia a una cattedrale antica, come spesso accade in Emilia-Romagna, dove anche i poderi rurali oggi in triste abbandono sembrano chiese. La penombra della “navata” centrale, le luci soffuse e le poltrone poste di fronte ai due schermi verticali su cui scorrono le confessioni di due interlocutori rendono la visione stranamente pacificata. Il pubblico in attesa parla a voce bassa, come si fa per rispetto nei momenti che precedono la celebrazione di un rito.

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Dal quartiere della darsena camminiamo verso il centro storico di Ravenna e raggiungiamo il Teatro Rasi, dove Davide Sacco e Agata Tomšič, i due artisti e direttori del festival, dopo il recente debutto della loro versione di Santa Giovanna dei Macelli, continuano l’itinerario di una meritoria riscoperta di Bertolt Brecht, stavolta non con un’opera teatrale ma con uno degli scritti polemici che riguardano il rapporto tra arte e politica: Cinque difficolta nello scrivere la verità, apparso nel 1935, da cui hanno tratto lo spettacolo Sulla difficolta di dire la verità.

Giovanna Dark, la “filantropa” che troppo tardi comprende la ferocia del capitalismo e muore canonizzata come Santa Giovanna dei Macelli, “risorge” qui propugnatrice appassionata e battagliera delle “istruzioni” per scrivere bene la verità che Brecht rivolge ad artisti e intellettuali nei primi anni dell’esilio. «Eroe bastonato» dalle circostanze, così definiva Benjamin il personaggio del teatro epico brechtiano per differenziarlo dall’eroe tragico, Giovanna/Agata Tomšič in un certo senso rinasce con un abito grigio di ascetica semplicità e gli anfibi militari, tra il monacale e l’attivista. Bersaglio polemico di Brecht sono gli intellettuali che denunciano la barbarie senza spiegare la ragione che la provoca, e cioè il fatto che «i rapporti di proprietà non vengono modificati». Così, per scrivere la verità, sono necessari non solo il coraggio ma anche l’accortezza di saperla riconoscere, l’arte di renderla maneggevole, l’avvedutezza di saperla scrivere per qualcuno che possa servirsene, l’astuzia di saperla divulgare eludendo la sospettosa vigilanza dello stato.

Diversamente da quel che si potrebbe pensare a prima vista, un testo di questa natura è tutt’altro che estraneo al teatro e alla lirica brechtiane. È felice quindi la scelta di inframmezzare la lettura di questa prosa polemica con due assaggi poetici. Si pensi al fatto che la «vecchia donna» ridotta in povertà protagonista de L’acquirente decide con coraggio di tornare nei negozi anche se non ha soldi, «per far sapere come stanno le cose», cioè per dire efficacemente la verità. Similmente, le parole d’ordine di Lode dell’imparare incarnano la «pietrificazione formale» (Fortini) delle proposizioni marxiste che serviva a tradurle in contenuti pratici: «Impara l’a b c; non basta ma imparalo! (…) Tu devi prendere il potere!»

La cifra interpretativa messa a punto da Agata Tomšič si esprime in una dizione inesorabile, dalla tonalità severa e incalzante, screziata di una rabbia controllata, ritmata come un metronomo, ma che a tratti prende fuoco in acuti di una vocalità contagiosamente audace. Sono originali fughe gorgheggianti, che culminano in un trillo d’uccello, con dentro una vena esplosiva. Esse si uniscono felicemente con le sonorità elettroniche di Davide Sacco e con le fotografie di Michele Lapini che scorrono sul fondale: immagini di manifestazioni e di lotte, di cariche della polizia, spesso ribollenti, in sintonia con la musica, in un processo di disgregazione grafica, materica e cromatica, che commenta acutamente le punte espressive della pregevole ricerca vocale-interpretativa.
A tratti la performer si allontana dal microfono e in un’area della scena in penombra cambia il registro vocale e passa a un tono sussurrato, privato, in intima comunione con il pubblico. La figura sottile e nervosa, il volto esangue, mobilissimo, ora severo ora inquieto o dolce, il profilo affilato, gli occhi chiari resi iridescenti dalla luce teatrale, Agata Tomšič sembra discendere “per li rami” da genealogie attoriali dell’avanguardia primonovecentesca e mitteleuropea, famiglie teatrali di energica irrequietezza e di caparbia tenacia.”